TARGA RICORDO DI PAOLO VOLPONI 2020 A FRANCO CERRI
L’inarrestabile forza della sobrietà: Franco Cerri
di Fabrizio Festa
Franco Cerri: ho avuto la fortuna
di ascoltarlo dal vivo. Appena entrato sotto le luci del palco del Teatro
Petrarca ad Arezzo si avvicina, senza fretta, al microfono. Saluta. La voce è morbida
e garbata, molto simile a quella del suono della sua chitarra. Poi spiega,
senza cambiare tono che lui, nell’acqua, in quella pubblicità che lo ha reso
noto persino alla massaia di Voghera, non c’è. Il pubblico ride. Il mistero è
risolto e può cominciare il concerto. Sul quel medesimo palco brilla anche il
talento del figlio Stefano. Sul quello stesso palco, prima e dopo quel
concerto, ebbi la fortuna di ascoltare molti dei compagni di viaggio di Cerri.
Gianni Basso, Oscar Valdambrini e Dino Piana, in primis, e probabilmente, ma
non ho modo di accertarmene, al pianoforte sedeva Renato Sellani. Ed ancora:
Enrico Intra, che con Cerri ha suonato in duo per anni. E Phil Woods che
ritroveremo in televisione con Cerri. Insomma, musicisti che definirli soltanto
come i migliori talenti della scena jazzistica italiana sarebbe davvero
riduttivo. Sono stati tra i protagonisti della scena del jazz nel mondo, e non
solo sui palcoscenici del nostro paese.
Parlare di Franco Cerri
significa, infatti, ristabilire una verità storica che, a partire dalla metà
degli anni Ottanta del secolo scorso, per ragioni che qui non c’è il tempo
d’indagare, è andata prima appannandosi, poi addirittura è stata negata, forse
vittima dei troppi facili revisionismi tanto cari alla recente storiografia
italiana. Non esiste il “jazz italiano”, così come non esiste quello britanno o
nordeuropeo. Tali etichette nazionali, ancorché frutto di un’intenzionale
distorsione romantica, fanno parte dell’invenzione ideologica nazionalistica,
che l’Europa prima (gli Stati Uniti poi) conoscono fin dagli inizi del XIX secolo.
Al contrario, è corretto dire che musicisti di ogni parte del mondo hanno dato un
contributo, ciascuno da par suo, al crescere e al maturare di quel fenomeno
musicale che chiamiamo jazz. Il contributo di coloro che sono nati in Italia è
tra i maggiori. I musicisti italiani fin dagli inizi della storia del Jazz, che
non è tout-court la storia delle musiche afro-americane, sono stati tra i
protagonisti. E non poteva essere diversamente, sia perché nelle due Americhe
l’emigrazione italiana era stata per decenni importante e continua, sia perché
la musica, nelle sue diverse espressioni, è parte integrante della storia del
nostro paese. Franco Cerri, del resto, accenna a questa fondamentale presenza
italiana nel contesto dello sviluppo del Jazz allorquando cita, ricostruendo la
sua vita d’artista, nomi quali quelli di Natalino Otto, Gorni Kramer, il
Quartetto Cetra, musicisti che in quella storia s’inseriscono a pieno titolo, e
con i quali, in particolare proprio con Kramer, un Cerri stupefatto e incredulo
si troverà a collaborare all’inizio della sua straordinaria carriera. Così se
da un lato la vicenda musicale di Franco Cerri trova il suo primo fondamentale
punto di svolta nell’incontro con Django Reinhardt, dall’altro si radica nel
fecondo terreno della canzone italiana, che da Otto e Rabagliati arriva a quel
Nicola Arigliano, lui pure protagonista nei medesimi anni del Carosello
televisivo e che sarà uno dei compagni di strada di Cerri. Nel mezzo ci sono i
Buscaglione e i Carosone; ci sono i genovesi, c’è quel Bruno Martino, un’altra
delle collaborazione di Cerri, e le cui canzoni saranno cantate in tutto il
mondo da jazzisti e non. Una contiguità e una continuità con la canzone
italiana che Cerri esalterà. Da autentico jazzista quale è, sa che la canzone in
generale è un repertorio cui guardare con curiosità e attenzione.
Sottovalutarlo o disprezzarlo è una forma di snobismo che non gli appartiene e
che non appartiene neppure al mondo del Jazz.
Dunque, parlare di Franco Cerri
ci permette di ristabilire il dato storico e musicologico del contributo
fondamentale dei musicisti (anagraficamente) italiani allo sviluppo del Jazz,
sgombrando il campo dal convincimento che tale contributo venisse dalla
periferia dell’impero, da una provincia tutta spaghetti e mandolini, e quindi
sostanzialmente estranea a quanto accadeva nei centri metropolitani del Jazz
d’oltreoceano. Che Milano o Napoli o Roma abbiamo siano stati altrettanto
centrali nella storia del Jazz basta a dimostrarlo la straordinaria prova che
la big band di Gil Cuppini dà nella prima delle sei puntate di Fine serata
da Franco Cerri, trasmissione realizzata dalla Rai agli inizi degli anni
Settanta. Stile modernissimo, insieme straordinario, suono potente ed efficace,
ed un assolo di Gianni Basso che spicca per originalità, un assolo nel quale
già troviamo quel mescolarsi di stilemi che andavano sperimentando i
sassofonisti americani. Gianni Basso è libero come Eric Dolphy e rigoroso come
Paul Desmond, funky come Cannonbal Adderley. Tutti aggettivi che potremmo
utilizzare senza meno per descrivere la poetica musicale di Cerri. Ad esempio,
nella produzione del suo quartetto con due chitarre, l’altra è quella di Angelo
Arienti, troviamo espressa quella stessa esigenza che aveva spinto Gunther
Schuller e John Lewis sulla strada della third stream, che ancora oggi
influenza le più diverse ramificazioni del Jazz (incluse quelle elettriche ed
elettroniche). Il sapiente camerismo, la sagacia compositiva, l’accuratezza
della performance, fioriscono in una musica fluida e solida al contempo,
gradevole e profonda, senza alcuna concessione o ammiccamento, ma al contempo
mai seriosa, nella quale la componente improvvisativa s’inserisce con
impeccabile coerenza. Il tutto sempre con lo sguardo pronto a cogliere anche i
più leggeri mutamenti, di quanto accade intorno a lui. Del resto, nelle serate
da Cerri, oltre ai nomi che abbiamo già citato, ospiti sono tanto Dizzy
Gillespie quanto Lucio Dalla (clarinettista in questo caso), il Quartetto di
Lucca. C’è Iannacci, che suona l’organo elettrico, e Slide Hampton. e Martial
Solal. Gillespie, peraltro si cimenta in un brano funky che fa pensare a James
Brown, piuttosto che al bop della cinquantaduesima strada. In quelle serate,
così come accadrà ovunque sui palcoscenici, suonano tutti assieme alla pari. A
conferma di questa larghezza di vedute e della coerenza di tale impostazione,
alla fine degli anni Settanta ecco un’altra trasmissione, ideata da Franco
Cerri e Giampiero Boneschi, un altro dei suoi compagni di viaggio, dal
significativo titolo Di Jazz in Jazz. Protagonista la Big Band di Milano
della RAI (nelle cui fila spicca, tra i tanti, ancora una volta Gianni Basso)
con ospiti i migliori musicisti della scena jazz, italiani e non, e Sabina
Ciuffini, da Rischiatutto, a far da spalla.
Quella testimonianza, così come le altre che conserva la RAI, alle quali poi si sono aggiunte quelle prodotte più di recente per altre emittenti televisive e per il web, ci mostrano infatti non solo lo straordinario musicista, di cui stiamo parlando, l’uomo appassionato che crede che “la musica sia l’unica medicina senza controindicazioni”, come dichiarerà più volte, anche quando affronterà senza ipocrisia il difficile argomento delle dipendenza da alcool e da droga di molti tra i musicisti, da lui stesso conosciuti e cin cui ha collaborato. Ci mostrano quelle testimonianze soprattutto un uomo arguto, dotato di una sottile e garbata, ma puntuta, ironia, compassato, ma mai distaccato, pronto allo scherzo, alla battuta, ma mai volgare. Un uomo dotato di quella forza gentile, che nasce da fare della sobrietà il più efficace degli strumenti emotivi. Cerri uomo e musicista dimostra che dall’eleganza e dalla sobrietà nasce una lunga onda di emozioni, che il tempo non stempera. Anzi, sembrerebbe darle ancora maggior forza. Un’onda più efficace di quelle magari prodotte con violenza e volgarità, e che si riducono ad un breve spasimo, per poi scomparire. Eleganza e sobrietà son, infatti, passioni di lunga durata.
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